giovedì, settembre 28, 2006

E NELL'ARMADIO UN PALANTIR


Future Publishing confirms magazine closures, but games titles safe

"Tech titles in firing line but games mags not affected"

Future Publishing has confirmed it is to sell or close a number of titles in its portfolio, but all games titles are currently safe.

"We are exploring options to sell titles, but none are from the games portfolio," confirmed a spokesperson for the company.

Managing director Robert Price sent an email to all staff this afternoon detailing reasons for the refocus.

"Against a backdrop of challenging market conditions currently faced by all publishers, we simply cannot afford to invest on all fronts, so these changes enable us to support our core print businesses and our planned areas of expansion mid-term, particularly online," he said.

"A number of magazines will be sold or closed," said Price. Titles singled out include DJ, Total Mobile, Digital Camera Shopper and Home Entertainment Week.

Future publishes a range of videogame magazines, including Edge, GamesMaster, Xbox 360: The Official Xbox Magazine and PC Gamer".

da gamesindustry.com

sabato, settembre 23, 2006

BILLIE HOLIDAY, LADY DAY


Se nel corso della vita ti capita di finire dritto dritto tra le braccia di una donna come Billie Holiday, ecco allora che puoi veramente considerarti fortunato. Che poi “tra le braccia” vuol dire pure finirci a letto ed esserne travolto una volta per tutte, almeno se (come da pronostico) il modo in cui canta una delle più disperate voci del jazz è anche solo parzialmente accostabile al modo in cui Billie si sbatteva i suoi ometti.
Eleonora Fagan, la nostra Billie Holiday, nacque il 17 aprile del 1915 in una squallida tana alla periferia di Philadelphia. Per capire quanto sarebbe stata divertente la sua vita le ci vollero probabilmente pochi istanti, giusto il tempo di rendersi conto di quanto disgraziata fosse sua madre, una modesta donna di servizio alle dipendenze della famiglie più bianche e più aristocratiche di Baltimora. Quando nacque la piccola Eleonora, sua madre aveva appena tredici anni. Del papà ufficiale, un musicista jazz, meno se ne parla e meglio è, visto che abbandonò ben presto il resto della famiglia al suo infame destino. E che “infame destino”, verrebbe da aggiungere. Eleonora si guadagnò il soprannome di “Lady” perché rifiutava di accettare le mance nel locale di Harlem dove cantava abitualmente, almeno da adolescente. Non è che le facessero schifo i soldi, è che non le piaceva l’idea di alzarsi la gonna e di farsi infilare le banconote tra le cosce, come era abitudine ad Harlem e dintorni in quei tempi barbari e oscuri. Prima ancora di ritrovarsi a cantare quasi per caso, Eleonora aveva già assaggiato la nauseabonda zuppa della vita guadagnandosi da vivere strofinando gli scalini delle abitazioni dei bianchi. A dieci anni era povera, sporca e abbandonata a se stessa. Di solito quando ti ritrovi in una situazione simile capita che qualcuno ti sussurri un “peggio di così non può andare”. Sbagliato, ovviamente: a dieci anni Eleonora viene violentata da un omaccione che già si scopava la madre, finendo poi direttamente in un riformatorio perché considerata ormai “corrotta”. Roba che a scriverla ci sarebbe da non crederci.
Quando la nostra piccola eroina venne buttata di nuovo in mezzo a una strada, ecco che non le si presentò altra possibilità se non quella di prostituirsi per pochi denari, con i quali affittare una stanza all’interno di un bordello. Una tipa tutta “casa e lavoro”, a vederla da fuori. Poi, finalmente, le capitò l’occasione di mettersi dietro a un microfono, per una serie di coincidenze piuttosto incredibili. E io me li immagino i volti sconvolti delle persone che la sentirono cantare la prima volta. Non per altro, ma Billie Holiday, quando cantava, cantava con una voce che sapeva, odorava, puzzava del suo schifo di vita. E come ciliegina sulla torta, tanto per renderla ancora più malsana e nauseabonda, subito dopo i primi timidi successi ecco arrivare anche la dipendenza dall’eroina.
A raccontarla così potrebbe sembrare che Cobain, al confronto, fosse uno baciato dalla fortuna. Ma da queste parti ci si attiene ai fatti: non una riga di quelle sopra scribacchiate è stata inventata e, ovvio, nessuna verità è stata colorata per amore della prosa creativa. Ma proprio per niente. Anche perché quando ascolti una delle ballate di Billie Holiday (proprio ora sullo stereo gira “What A Little Moonlight Can Do”), ti viene voglia di essere onesto e sincero una volta per tutte. Se lo era lei, che avrebbe avuto una mezza infinità di buoni motivi per sputare addosso al mondo e a tutte le anime tristi che lo popolano, come potresti mai permetterti di non esserlo pure tu? Tu che sei già fortunato ad avere modo di sentirla cantare la sua più buia disperazione, la sua più struggente tenerezza, le sue più malinconiche fantasie. L’unica cosa che puoi permetterti è di considerarti fortunato, anche se un goccio d’invidia per l’uomo di cui canta Billie in “My Man” è proprio impossibile non provarla. A quale uomo, fra i mille e più che finirono per usarla, umiliarla e ucciderla era mai stata dedicata? Quello sì che doveva veramente essere un uomo fortunato! Un uomo amato da una donna ubriaca di dolore e di vita. Un uomo amato da una donna che a letto, prima di prendere sonno, probabilmente gli sussurrava in un orecchio, con una voce gracile e profonda, “Me, myself and I are all in love with you, we all think you're wonderful, we do”.

BILLIE HOLIDAY: ME, MYSELF AND I


Me, myself and I
Are all in love with you
We all think you're wonderful
We do
Me, myself and I
Have just one point of view
We're convinced
There's no one else like you
It can't be denied dear
You brought the sun to us
We'd be satisfied dear
If you, you'd belong to one of us
So if you pass me by
Three hearts will break in two
Cause me, myself and I
Are all in love with you
Me, myself and I
Are all in love with you
We all think you're wonderful
We do
Me, myself and I
Have just one point of view
We're convinced
There's no one else like you
It can't be denied dear
You brought the sun to us
We'd be satisfied dear
If you'd belong to one of us
So if you pass me by
Three hearts will break in two
Cause me, myself and I
Are all in love with you

LA NOTTE, AD ATARI


Una delle cose belle di Animal Crossing: Wild World è che, a ben vedere, più che come un videogioco funziona come una sorta di “diario dei segreti”. Quello che succede tra i due schermi della mia console, poche storie, nessuno può saperlo. A parte me, ovvio. Certo, magari un animaletto chiacchierone è capace di andare a vivere in un altro villaggio, portandosi dietro le lettere che gli avevo spedito e le paure che gli avevo confessato. In linea di massima, però, la vita di un Animal Crosser come me (così si chiamano in gergo le personcine che hanno deciso di andare a vivere tra coccodrilli malinconici e procioni con il grembiule) non può che restare misteriosa, anche e soprattutto agli occhi dei propri amici, parenti, fidanzati e puttane d’alto borgo. In effetti, tanto per fare un esempio, credete che Tania sappia esattamente cosa ho combinato nel corso di tutte le ore che ho passato ad Atari, il mio borgo di Animal Crossing? Sapeva che mi occupavo dei fiori e che mi piaceva stare sulla spiaggia a cercare conchiglie, soprattutto quando pioveva (ma forse no, forse non lo sapeva), ma il linea di massima non poteva certo sospettare cosa facessi, soprattutto di notte. E forse è meglio così, perché se lo avesse saputo si sarebbe pure potuta spaventare. O magari si sarebbe messa a ridere, vai a sapere.
Nel mio armadio, assieme agli oggetti della serie egizia per il Conte Massara (che prima passerà a ritirarli e meglio sarà), conservo in buon ordine una mezza infinità di vestiti, cappelli e travestimenti. C’è dentro di tutto: una divisa completa da poliziotto, l’elmetto militare e la tuta mimetica, la maglietta di Super Mario, il costume da coniglio, nasi e baffi finti in gran quantità, un casco da pilota di Formula 1, il copricapo di Sherlock Holmes... e guai a dimenticarsi della toga romana!
Questi travestimenti sono quelli che indosso di notte, quando mi prendo un po’ di tempo per girare per il villaggio sotto mentite spoglie. Mi piace tantissimo gironzolare travestito in maniera assurda, smettendo per qualche decina di minuti la mia classica divisa da pirata timido e infelice. I miei vicini di casa, soprattutto Melba e Buck, sembra quasi che non facciano caso ai miei eccentrici camuffamenti, ma non mi importa. Quello che mi importa è che setacciare la spiaggia alla ricerca del corallo con addosso la tuta da astronauta è un lusso che si possono concedere in pochi. Come in pochi possono pretendere di girare per il villaggio vestiti da vigili del fuoco o da giullari di corte. Qualche mezza volta mi concedo addirittura il lusso di togliermi il cappello, la maschera e la maglietta e di correre in giro mezzo nudo, facendomi vedere per quello che sono.
La mattina, però, quando mi sveglio e mi ritrovo a letto con addosso un costume da cuoco o da marinaio, la prima sensazione che provo è di imbarazzo. È una sensazione che mi ricorda un po’ quella del mattino post-sbornia, quando la vergogna si mette a braccetto con i (pochi) ricordi della serata precedente. Ma forse è proprio questo il prezzo da pagare per un po’ di svago. E visto che bevo sempre meno, mi pare pure giusto che il mio armadio finisca per essere pieno zeppo di cuffie da notte, tocchi universitari, maschere antigas e stravaganti scafandri. È una questione di equilibrio. Precario, certo, ma pur sempre equilibrio.

mercoledì, settembre 20, 2006

SALUTI DALLA CASCINA


... che è un modo carino per dire che ho la mia nuova macchina fotografica digitale :)

sabato, settembre 16, 2006

L'UOMO DEI RECORD


Che smacco, per tutti voi uomini e donne di poca fede! Con vostra somma meraviglia posso ben dire che che la mia nuova routine quotidiana stia funzionando a meraviglia. Certo, magari non sotto il profilo emotivo/sentimentale, ma per quanto riguarda gli aspetti fisici e mentali non ci possono essere dubbi. Dei cambiamenti del corpicino di questa fragile marionetta parleremo più avanti, anche se si può già accennare un sorriso all’idea della pancetta ormai quasi del tutto prosciugata grazie agli esercizi mattutini. Certo che non è facile accorgersene, ed è pure ovvio che lo scotto da pagare sia un mal di schiena che meno se ne parla e meglio è. Qualcuno dice che possa dipendere anche dall’aver perso un sostegno, ovvero Tania, e forse le due cose sono veramente legate tra di loro.
Il corpicino inizia quindi a riassestarsi e, inoltre, sembra proprio che anche il mio testolino abbia ripreso un po’ di quota, almeno stando agli ultimi test dell’esimio Dr. Kawashima. Per essere un tipo appassionato di videogiochi posso ben dire di giocarne proprio pochi: mi sembrano tutti uguali, tutti già visti e tutti un po’ banali. E vedermeli arrivare uno dopo l’altro per motivi di lavoro non è che aiuti la situazione. Sarà per questo che i pochi che ho trovato stimolanti, nel corso degli ultimi tempi, siano stati quasi tutti sviluppati per Nintendo DS, che è una console un bel po’ diversa da tutte le altre. E tra questi “giochi nuovi”, oltre a quella magnifica esperienza di vita che risponde al nome di “Animal Crossing: Wild World”, un posto d’onore se lo merita “Brain Training: Train Your Brain in Minutes A Day!”. Ormai sono già più di tre mesi che ogni giorno che dio manda in Terra mi ritaglio un cinque/dieci minuti per tenere allenato il cervellino, stimolandolo con gli esercizi che il Dr. Kawashima ha sviluppato appositamente per gente messa male come me. Proprio negli ultimi giorni ho abbattuto uno dopo l’altro i miei record in alcuni di questi esercizi. In quello battezzato “Calcolo 20”, ovvero una sorta di gara di velocità nella risoluzione di venti semplicissime operazioni matematiche, sono riuscito a bloccare il cronometro a 14.51 secondi, limando di ben 24 decimi il mio record precedente. Ancora più impressionanti sono i 6 e passa secondi guadagnati nel “Calcolo 100”, con il timer inchiodato adesso a un minuto e venti secondi. Un altro esercizio che, proprio in questi ultimi due giorni, mi ha visto più in forma che mai è il maledetto “Memoria Lampo”, un giochino che prevede la memorizzazione istantanea di una serie di cifre sistemate a caso sullo schermo. Anche in questo caso, come accennato, sono riuscito a superare il me stesso del passato (che era una pippa, diciamocelo): 44 punti non sono bruscolini, come può confermare chiunque abbia provato anche solo una volta a sistemare i numeri sparpagliati in giro dal perfido Dr. Kawashima.
Insomma, la mente funziona e il corpicino inizia di nuovo a riprendere forma. Per essere uno che è andato al tappeto solo due giorni fa, inutile girarci attorno, sembro proprio un figurino. Ma forse il segreto è un altro. Forse il tipo che è finito lungo e disteso sotto i colpi dei sentimenti e quello che ha battuto tutti i suoi record negli ultimi giorni non sono nemmeno la stessa persona. O magari il merito è tutto di Nintendo e del Dr. Kawashima e, allora, non mi resta altro da fare che sperare in un “Heart Training: Train Your Heart in Minutes A Day!”. Se Nintendo è una mamma premurosa e dolce come si dice, allora dovrebbe pensare anche a questo. Sempre che non lo stia facendo da sempre, ovvio. E, a ben vedere, forse è proprio così.

giovedì, settembre 14, 2006

AL TAPPETO


Non puoi vincere tutti i round.

mercoledì, settembre 13, 2006

IL MISTERO DEI BARBAPAPÀ


I Barbapapà, diciamocelo, sono veramente irresistibili: grossi, morbidi, malleabili, placidi, colorati, profumati, dolcissimi... li vedi e ti viene voglia di mangiarli tutti, uno dopo l’altro.
I gommosi personaggi ideati da Annette Tison e Talus Taylor, almeno per chi è nato negli anni ‘70, sono legati per forza di cose ai ricordi d’infanzia e, ovvio, questo è quindi vero pure per me. Da bimbo, se non sbaglio, dovevo avere solo due degli albi della serie, ovvero “Barbapapà” e “Barbapapà cerca casa”. Anche sforzandomi non riesco però a ripescare nello scatolone dei ricordi nemmeno una pagina, una vignetta, un ghirigoro. E men che meno riesco a riportare alla memoria le storie che vedevano protagonisti i Barbapapà. Eppure ho ben stampate in testa le due copertine degli albi, di cartone rigido e un bel po’ ammaccate. Tra i neuroni è rimasta incastrata addirittura una sorta di fotografia del sottoscritto, seduto in un angolo della cameretta di Claudia, tutto intento a rigirarmi tra le mani questi due improbabili libri. Questo "insospettabile" rigurgito nostalgico nei confronti dei Barbapapà è dovuto ad uno dei regali di compleanno più azzeccati tra quelli ricevuti quest’anno. Il vantaggio di avere una sorella è che ti conosce (e spesso ti capisce) meglio di chiunque altro, genitori compresi. E infatti è stata proprio Claudia ad omaggiarmi dei primi cinque albi della serie dei Barbapapà ristampati proprio or ora dal Battello a Vapore.
Io la storia dei Barbapapà, come accennato, mica me la ricordavo e, soprattutto, mica me la ricordavo così triste. Diamine, tempo quattro pagine e quasi ti ritrovi in lacrime. Il povero Barbapapà, infatti, nasce nel giardino dove gioca alla vita un semplice ragazzino come tanti altri, e fin qui i fazzolettini di carta possono stare al loro posto. Peccato che i genitori del ragazzino in questione, che risponde al nome di Francesco, caccino via il povero Barbapapà perché troppo grosso e ingombrante per vivere con loro. Barbapapà viene così spedito alla zoo dove, rinchiuso in una piccola gabbia, passa le sue giornate piangendo a dirotto. Fortunatamente, però, il nostro gigante rosa è un tipo pieno di risorse e impiega solo un attimo per organizzare la sua fuga. Peccato che, una volta libero, il nostro eroe continui ad essere infelice: nessuno lo vuole, nessuno gli è amico e nessuno gli tende la mano. Solo quando ha finalmente l’occasione di mettere in mostra il suo buon cuore, oltre che il suo coraggio, il placido Barbapapà riesce a farsi accettare dagli esseri umani. E da quel momento in poi le cose tendono a girare per il verso giusto, almeno fino a quando il povero Barbapapà non inizia a patire le pene d’amore. La ricerca di una Barbamamma è raccontata nel secondo volume, “La Famiglia dei Barbapapà”, che poi è anche l’albo che vede la nascita dei sette figlioletti, ognuno caratterizzato da un colore specifico e da un’indole ben definita. Da qui in poi alla Barbafamiglia ne vanno bene proprio poche. Il problema della ricerca di un’abitazione adatta ai nove coloratissimi blob è illustrato nel terzo volume, “La casa dei Barbapapà”, mentre nel quarto i nostri improbabili eroi sono addirittura costretti a fuggire su di un altro pianeta assieme a tutti gli animali della Terra, ormai inquinata dall’uomo a tal punto da renderla invivibile. A quegli sciocchi degli esseri umani, però, gli animali e la natura iniziano ben presto a mancare, e così si mettono d’impegno per ripulire tutto il pianeta, in modo tale da farlo tornare verde e azzurro.
Vista e considerata la complessità della vicenda, adesso mi è più facile capire il perché da bimbo mi piacessero i disegni e poco altro. In effetti la serie, che è nata nel 1973, è forse stata una delle prime ad avere un’impostazione ecologista. Ai tempi facevo fatica a capire cosa mi stesse succedendo attorno, figuriamoci se mi poteva venire in mente di preoccuparmi di quanto velocemente il pianeta stesse andando in malora. E non è che le cose siano poi cambiate tanto, da quei tempi: ancora oggi capisco poco di quello che orbita attorno e, ancora oggi, faccio fatica ad interessarmi a quello che succede su questo cazzo di pianeta. Ma almeno adesso capisco le vicende narrate negli albi della serie e, tutto sommato, questo è un traguardo mica da niente. Di tanto in tanto un sorriso è capace di salvarti la vita, come insegnano i Barbapapà.

martedì, settembre 12, 2006

NINA SIMONE, LITTLE GIRL BLUE


Diamine, per una vita io le cantanti e le voci femminili non le ho potute soffrire. Certo, con qualche straordinaria eccezione: una incerta simpatia per la prima Patti Smith, un gran rispetto per Janis Joplin, un mezzo pensierino a P.J. Harvey... poca roba, tutto sommato. Ci sarebbe da mettere in conto pure Mary Margaret O’Hara, ma visto che la conoscono in tre forse (per ora) è meglio glissare.
Resta il fatto che nella mia vita, per un bel po’ di anni, l’unica presenza fissa e costante dell’universo femminile è stata Tania. A guardarla bene ci vedevo dentro tutte le donne del mio mondo: una sorta di mamma di riserva, di amica mezza scema e di fidanzata frizzi & lazzi. Resta il fatto che, da quando se ne è andata, tutte le luci rosa del mio immaginario si sono spente all’improvviso. Ero talmente abituato ad essere curato e controllato da un occhio femminile che, quasi senza accorgermene, mi sono ritrovato a circondarmi di fanciulle più o meno credibili. Tra tutte, quella che più mi ha consolato, rallegrato e ispirato, è senza dubbio Nina Simone.
“Nina Simone”, già, che poi è un nome d’arte. All’anagrafe la signorina era conosciuta come Eunice Kathleen Waymon, e per arrivare al nome scelto per muoversi nelle paludi dell’industria musicale le sono servite due capriole. Eunice ha scelto “Nina” come nomignolo in omaggio al suo fidanzato (che in intimità la chiamava appunto così), e “Simone” per strizzare l’occhiolino ad una delle sue attrici preferite, tale Simone Signoret.
La piccola Eunice nasce nel North Carolina nel 1933 e, come al solito, la sua infanzia risulta tribolata per via delle più ovvie discriminazioni razziali e dalla solita (e precaria) situazione economica dei genitori. Fin da giovane Eunice mette in mostra delle doti canore fuori dal comune, ma la sua vera passione pare essere il pianoforte. A soli dieci anni Eunice ha la possibilità di mettersi in bella mostra davanti ai genitori, che sono seduti nelle prime file di una piccola sala musicale, in attesa di vedere la figlioletta alle prese con l’accompagnamento pianistico per un recital. Nemmeno il tempo di iniziare e la serata è già bella che rovinata, con i genitori costretti a sistemarsi in fondo alla sala per lasciare i loro posti ad una distinta coppia di “bianchi”. Eunice un po’ ci rimane male e un po’ si incazza, al punto tale che il malumore non le è passato nemmeno adesso. Ancora oggi si racconta dei suoi eccessi d’ira, che la portarono a sparare addosso al figlio dei suoi vicini di casa, perché le sue risate la disturbavano. E la tipa doveva veramente avere il grilletto facile, perché più avanti aprì il fuoco pure contro un manager della sua casa discografica, reo di averle fregato un po’ dei guadagni derivanti dalle vendite dei suoi album. Resta il fatto che nel suo disco d’esordio l’amarezza per la sua infanzia brulla e triste la si sente eccome, ma fortunatamente se ne rimane sullo sfondo, così da lasciare spazio a sentimenti più universali: nostalgia, paura, sensualità e, addirittura, una scintilla di speranza. La scaletta del disco è formidabile, con blues profondi come la notte dedicati ad amanti abbandonati alternati a filastrocche jazzate, ma non ci si può dimenticare degli “intervalli pianistici” che rimandano alla musica classica, altro campo dello scibile umano che da giovane le venne precluso per via delle più becere discriminazioni razziali.
Resta il fatto che un disco come “Little Girl Blue” ti capita di incontrarlo una sola volta nella vita, e che se sei fortunato ci inciampi dentro proprio quando sei alla ricerca di una nuova mamma, di una nuova amica, di una nuova amante. Perché quando Nina Simone canta “Love Me or Leave Me” improvvisamente i nuvoloni dell’animo vengono ricacciati da dove sono venuti. Perché quando Nina Simone si strugge recitando “Don’t Smoke in Bed”, ecco che ti scopri con le lacrime agli occhi. Perché quando Nina Simone suona “You’ll Never Walk Alone”, premendo e accarezzando e sfiorando i tasti di un pianoforte mai tanto dolce, nel giro di un battito di ciglia il titolo della canzone sembra molto più, molto di più, che una semplice promessa. Per un attimo ti sembra proprio che una ragazza fragile e coraggiosa ti stia tendendo la mano, per farti compagnia lungo una strada che a percorrerla da soli ci sarebbe da avere paura. Tanta, troppa paura.

sabato, settembre 09, 2006

PHIL SPECTOR


Se c’è una cosa che non sopporto del tizio che abitualmente imbratta le pagine di questo libercolo elettronico, non ci sono dubbi, questa è la sua straordinaria capacità di non capirci mai un cazzo. Premiamo un tasto a caso, tipo quello musicale, e stiamo a vedere.
Da circa un mese, pur avendo la casa strabordante di album, raccolte, LP, concept, singoli a tiratura limitata e mille altre porcate in odor di pentagramma, ecco che il nostro passa il tempo a ballare e a canticchiare alcune delle più agghiaccianti canzoncine pop della storia della musica. Vederlo sculettare e strillare in falsetto “oooooh baby!” ogni due per tre, nel tentativo di accompagnare le Supremes (nemmeno ne avessero bisogno), è uno spettacolo disgustoso. E non parliamo poi delle gite nel fantastico mondo delle Ronettes, di cui il losco figuro di cui sopra vi ha già raccontato (a modo suo) qualche giorno fa. E via di complimenti, e via di applausi, e via di ampi cenni d’assenso. Ma che si fottano, le Ronettes. Se non fosse stato per l’orco cattivo, se non fosse stato per Phil Spector, ‘ste tre ragazzine sarebbero rimaste dalle parti di New York a servire ai tavoli, che tanto quello era il loro mestiere. E se qualcuno si prendesse la briga di stare attento a come è andata a finire la storia, ecco che non potrebbe far altro che darmi ragione. Phil Spector, invece, ai tavoli non avrebbe mai potuto servire. Anzi, probabilmente della sua vita non avrebbe mai potuto fare niente altro che quello che ha fatto, ovvero sprecarla, umiliarla, irriderla. Ma del resto basta dare un’occhiata ai suoi primi anni di vita per rendersi conto che il destino non l’avesse sistemato proprio sui binari giusti.
Phil Spector è nato nel 1940, il 26 dicembre, da una coppia in odor di incesto. Il padre e la madre, infatti, vuole la leggenda che fossero primi cugini, e tanto per scombussolare ancor di più la vita di un ragazzino bianco, ebreo e costretto a crescere nel Bronx, ecco che il padre si suicida quando il nostro ha soli nove anni. Ecco, così si inizia una bella storia di quelle che piacciono a noi, quelle dove il futuro di un’animuccia pare già scritto, imbustato e spedito verso un finale a dir poco misero. Ovvio che Spector, che nella miseria ci era nato, per ritornarci ha pensato bene di fare il giro lungo. Giusto il tempo di preparare la valigia ed eccolo partire verso Los Angeles, California.
Nella città degli Angeli, uno incazzato e malato come lui avrebbe solo e soltanto potuto fare fortuna. E infatti basta poco per vederlo spuntare fuori dal nulla con un singolo tutto pop & lustrini, registrato con un gruppo di “amici” chiamati Teddy Bears. La canzone è “To Know Him Is To Love Him” e il titolo, con gran gusto per la perversione, è l’epitaffio inciso sulla lapide mortuaria del padre. Ovvio che per arrivare al primo posto della classifica di Billboard con un’idea del genere si debba essere dei fenomeni. Resta il fatto che il singolo vende qualcosa come cinque milioni di copie e che il giovane Phil, pur attraverso le solite e scurissime lenti dei suoi occhiali da Sole, riesce ad intravedere un sentiero pavimentato di contanti, sesso, fama e tanta droga.
A ventuno anni Spector è miliardario: quello che tocca si trasforma in oro massiccio. Pure gli innocenti singoli delle Ronettes, tanto per tornare all’argomento principale. Ma come ben sanno i più saggi di noi, perdere tutto è questione di un attimo. E infatti, dalla seconda metà degli anni ‘60 in poi, per Spector inizia il viaggio di ritorno verso casa. Che è come dire verso l’inferno, ovviamente. Lungo la strada incontra un sacco di altre anime dannate quasi quanto la sua, anime come quelle di John Lennon, dei Ramones, di Leonard Cohen (al quale puntò una pistola alla tempia, tanto per dirne una, durante la registrazione di “Death of a Ladies’ Man” del 1977). Già che c’era, e già che aveva un attimo, si prese pure la briga di produrre l’ultimo (per modo di dire, sapete come è andata la storia) album dei Beatles, facendo incazzare uno solitamente ben poco permaloso come McCartney. La sua “The Long and Winding Road” viene sommersa da Spector con una colata di archi e di arrangiamenti a dir poco pomposi. Il Baronetto di Liverpool, piuttosto che prendersela con Phil (che doveva avere una luce strana negli occhi), decide di dare la colpa a Lennon, chiudendo così la storia dei Beatles.
Dopo anni di paranoia spirituale, e dopo una sorta di segregazione volontaria nella propria reggia (una villa chiamata Pyrenees Castle, in California), a Phil Spector non resta altro da fare che organizzare un gran finale. Negli appartamenti della sua lussuosa abitazione uccide con un colpo d’arma da fuoco una (non più) giovane attrice, Lara Clarkson. Il 3 febbraio del 2003 viene così arrestato, gettando una scura luce sul contenuto di un’intervista rilasciata solo quattro settimane prima al Daily Telegraph. Spector aveva affermato di sentirsi poco bene, aggettivandosi come “relatively insane”. Già, “relativamente”, almeno rispetto a tutti gli altri che aveva incrociato per strada.
Ecco, questa è una storia che vale la pena raccontare. Altro che quella delle Ronettes e delle loro canzoncine pop da due minuti. Una canzone come “Be My Baby” non bisognerebbe ascoltarla, figuriamoci ballarla o canticchiarla. Bisognerebbe solo sapere che chi l’ha scritta è finalmente sulla porta dell’inferno, sulla porta di casa sua, pronto per tornare da dove è venuto.

venerdì, settembre 08, 2006

LE TISANE DEL DISPIACERE


Quante birre avrò bevuto quest’estate? Una mezza infinità, probabilmente, soprattutto alla sera, tra una fumata e l’altra. Da qualche tempo, però, la classica bottiglia di Heineken è stata sostituita dalla ben più carismatica tazza del the, per l’occasione riciclata e promossa a “tazza della tisana”.
Di tisane, ovvio, io ci capisco poco o nulla. Resta il fatto che alcune mi piacciono, e che spesso non mi sono preso la briga di prepararmele solo per pigrizia. Adesso quei tempi, quelli della pigrizia, sono però finiti, anche perché pericolosi. Sia al pomeriggio che alla sera faccio quindi andare il bollitore, tutto bofonchiante e fischiettante (e borbottante, o sibilante... i bollitori vantano un campionario di effetti sonori che nemmeno “Swordfishtrombones” di Tom Waits).
Per ora mi concedo tre tisane al giorno, in media, più la mia tazza di the mattutina. Le tisane le ho scelte rigorosamente a caso, ma ne ho trovata almeno una proprio buona. Si tratta di un orribile infuso al finocchio e alla liquirizia che, in linea teorica, dovrebbe essere una sorta di dolce pozione velenosa. E invece no, a sorpresa si dice che faccia benissimo, soprattutto a livello digestivo. Ma tu guarda che buffo. Al secondo posto di questa speciale classifica delle tisane settembrine troviamo invece un infuso al ribes nero, ginseng e vaniglia. Questa suona come una roba buona, e infatti non è malaccio, anche se il gusto è forse un po’ troppo appuntito per il fine palato magiustrico, da sempre più innamorato dei sapori rotondi e morbidi piuttosto che di quelli aspri e appuntiti. Visto che il ginseng si mormora che sia una botta d’energia e uno stimolante e fisico e mentale, questa tisana la bevo solo e soltanto al pomeriggio, mica di ripetere le notti insonni al gusto cocaina di qualche anno fa. Roba che più la si evita e meglio è, già già. L’ultimo posto del podio, quello riservato alla “terza tisana più buona dell’ultimo mese d’estate”, è tutto per l’infuso al the verde, ginseng (di nuovo) e limone. L’ho bevuta ieri pomeriggio per la prima volta, e non è che ci abbia capito molto. Forse i sapori erano troppo forti, o forse l’ho bevuta ancora ustionante (la gola...)... vai a sapere. Resta il fatto che per ora è quella che mi è piaciuta di meno, assieme all’infuso di finocchio, il fratellino povero della tisana Finocchio & Liquirizia di cui sopra.
In linea di massima, comunque, suppongo che queste e altre tisane mi faranno compagnia per l’inverno che già intravedo stagliarsi minaccioso all’orizzonte, quando vado a fare l’ultima passeggiata giornaliera con Conflitto verso le 19:30. A quell’ora, lontana lontana verso le montagne, l’aria si è già spenta. Il rumore dei grilli e degli insetti che mi saltano attorno mentre attraverso i campi davanti alla cascina sembra venire da anime terrorizzate. Anime che cantano come se non ci fosse un domani. Una volta dentro casa, invece, con la tazza di Jeeg tra le mani e il profumo del finocchio e della liquirizia ad invadermi il nasone, io a differenza dei grilli un domani riesco ad intravederlo. Anche se si preannuncia lungo, piovoso e tanto, tanto buio. Sempre meglio di quello dei grilli, sempre meglio di quello dei grilli.

mercoledì, settembre 06, 2006

IL COLPO DELLA STREGA


Anni fa, tanti anni fa, ovvero prima che Tania venisse a fare un giro nel mio vitino, se c’era una cosa che non mi faceva paura per nulla era il dolore fisico. Pare strano a dirsi, ma non lo sentivo proprio. Era quel periodo fatto di sigarette spente sul braccio, per intenderci. Lo stesso periodo della doccia gelida, della casa senza riscaldamento e della più buia disperazione.
Tutta un’altra roba rispetto ad adesso, che sono cresciuto più saggio e ho imparato a coccolarmi un po’. Sotto certi punti di vista è stato un po’ come ritrovare la propria fisicità, dopo anni passati a sfruttare il corpo come una sorta di automobile, ovviamente utilizzata solo e soltanto per portare il cervello a destra e a manca. E se mi conoscete saprete bene quanta poca cura io presti alla pulizia, all’ordine e alla manutenzione della mia macchina...
Resta il fatto che il rendersi conto di avere un corpicino si è portato dietro qualche scocciatura di quelle che più puoi farne a meno e meglio è, ovvero i dolori, i risentimenti e i fastidi “fisici”. Stranamente, a differenza di quanto accade di solito, questa volta non è la parte sinistra della schiena, quella all’altezza della spalla, ad essere la causa scatenante di mal di testa, nevrosi e preoccupazioni. No, questa volta l’epicentro è la base della spina dorsale.
Buffo anche "il come" mi sia infortunato. Un attimo prima ero piegato verso il lavandino tutto intento a spruzzarmi l’acqua sugli occhi (uno dei miei passatempi preferiti, caso mai la curiosità vi stesse facendo la linguaccia), un attimo dopo ero praticamente bloccato sul posto. Nel bel mezzo della simpatica animazione c’è stato pure il tempo per uno starnuto, dovuto dall’ormai proverbiale allergia all’ambrosia e causa scatenante della contrattura.
Quello che mi ha paralizzato i più lo chiamano “Il Colpo della Strega” e, adesso che l’ho sperimentato in prima persona, capisco pure il perché: è improvviso, è cattivo ed è pure un po’ ingiusto. Fisicamente, infatti, era da tempo che non mi sentivo così tonico e reattivo come in queste ultime settimane. Speravo che l’idea di rimettermi in riga sul piano fisico, ovvero quella di ritornare a piacermi almeno un po’, potesse essere un buon appiglio per la risalita. E visto come mi sento da due giorni a queste parte, tutto sommato, mi pare di poter dire che probabilmente ci avevo visto pure giusto. Il Colpo della Strega, infatti, non mi ha portato solo il mal di schiena e la (semi)paralisi, ma anche un po’ di sfiga (di cui si parlerà a tempo debito: roba del lavoro, comunque) e un po’ di malinconie assortite. Appena mi rimetterò in sesto il mio cazzo di pianeta ne vedrà delle belle. E le streghe faranno bene a nascondersi. E in fretta, già già, in fretta.

THE SUPREMES


Continua la mia abbuffata di pop, questa volta con un dolce che definire “ricercato” è forse troppo poco. Non per altro, ma le Supreme Regine del Pop negli anni ‘60 erano delle fanciulle sofisticate, eleganti e assolutamente inarrivabili. Al confronto le Ronettes parevano le tue vicine di casa, solitamente inarrivabili pure quelle ma per motivi ben diversi. Le tre Supreme Bimbe del Pop, per buona metà degli anni ‘60 (l’ultima, per la cronaca), negli USA se la giocarono addirittura con i Beatles in termini di popolarità. Ed è tutto dire, ovviamente.
Il segreto alchemico alla base del loro successo stava tutto nella magica formula Motown: arrangiamenti decadenti, melodie cosparse di miele e liriche assolutamente dirette. Il tutto ovviamente abbellito, stuccato, impreziosito. E infatti a canzoni come “When the Lovelight Starts Shining Through his Eyes” bastano una strofa e un ritornello per farsi volere bene tutta la vita. Come si può avere in antipatia una canzone capace di ribaltare la realtà con un paio di infantili ghirigori vocali? Con il suo incedere arrogante, strafottente, sensuale e ingenuo al tempo stesso, “When the Lovelight Starts Shining Through his Eyes” si candida come “Manifesto ufficiale del Gruppo”, almeno per quello che mi riguarda. E, sempre per quanto mi riguarda, questa sarà ricordata come una delle canzoni che mi hanno fatto attraversare le paludi estive del 2006 con un sorriso strano stampato sul volto.

lunedì, settembre 04, 2006

THE RONETTES, "BE MY BABY"


The night we met, I knew I needed you so
And if I had the chance, I'd never let you go.
So won't you say you love me,
I'll make you so proud of me.
We'll make 'em turn their heads every place we go.

So won't you, please, (be my, be my baby)
Be my little baby, (my one and only baby)
Say you'll be my darlin', (be my, be my baby)
Be my baby now, (my one and only baby)
Wha-oh-oh-oh.

I'll make you happy, baby, just wait and see.
For every kiss you give me I'll give you three.
Oh, since the day I saw you
I have been waiting for you.
You know I will adore you 'til eternity.

So won't you, please, (be my, be my baby)
Be my little baby, (my one and only baby)
Say you'll be my darlin', (be my, be my baby)
Be my baby now, (my one and only baby)
Wha-oh-oh-oh.

So come on and, please (be my, be my baby)
Be my little baby, (my one and only baby)
Say you'll be my darlin', (be my, be my baby)
Be my baby now, (my one and only baby)
Wha-oh-oh-oh.

(Be my, be my baby), Be my little baby.
(My one and only baby), oh,
(Be my, be my baby), oh,
(My one and only baby), wha-oh-oh-oh-oh.

[Repeat & fade]

THE RONETTES


Serve nuova musica per tornare a respirare, non ci sono dubbi. E infatti, nemmeno a dirlo, dopo qualche anno di latitanza ho rimesso piede nella bottega di Carù. Questa volta l’idea era quella di farmi una scorpacciata di pop tuttigusti & tutticolori. Idea già sfiorita miseramente in quel di Borgomanero la settimana scorsa, tra l’altro, quando nel tristissimo e nervosissimo Underground avevo invano cercato qualche disco pop che evocasse meraviglia e nostalgie. Un disco pop come quelli che incidevano le Ronettes, tanto per intenderci: stupefatto, scivoloso, semplice, evocativo, spesso addirittura sciocco come solo la migliore musica pop. Come ovvio non è che il merito di tanta grazia fosse tutto di Ronnie, Estelle e Nendra, le tre ninfette pop spuntate dal cemento delle strade di New York. Dietro allo stravagante muro di suono di una canzone come “Be My Babe” si cela la torbida mente di Phil Spector, vero e proprio mentore del gruppo, oltre che futuro marito e carceriere di Ronnie. Ed è il lato malsano e malato di Phil Spector a fare delle Ronettes un gruppo pop praticamente perfetto. Le tre disincantate protagoniste dell’avventura cantano cose buffe, semplici, speranzose. La musica attorno alla quale si avvolgono le parole suona facile, immediata, inoffensiva. Eppure si ha sempre l’impressione che qualcosa non torni, quasi che tutti i colori del pop con i quali sono state dipinte canzoni come “Baby I Love You” o “Do I Love You?” dovessero riempire un denso, gelido, profondissimo buco nero.

domenica, settembre 03, 2006

BURGERTIME, DATA EAST (1982)


Bei tempi, quelli dove c’erano videogiochi che ti mettevano nei panni del barista, dello chef e del giardiniere. Burgertime era proprio uno di questi, e gironzolare con il cappello da cuoco sulla testa non è mai stato tanto divertente, almeno per chi non ha ancora iniziato a spignattare con gusto in cucina. Io ho appena cominciato, e la mia tragedia con i falafel di qualche giorno fa sarebbe stata da filmare, tanto si è rivelata prevedibile e assurda al tempo stesso. Ma si diceva di Burgertime, già già. O di Hamburger, come era conosciuto in Giappone, che poi è lo stesso. Come lo stesso era il protagonista, tale Peter Pepper che i più hanno da sempre associato al celebre Sergente degli Scarafaggi di Liverpool. Il gioco a vederlo da lontano sembrava un sacco Donkey Kong, e non è che avvicinandoti la sensazione cambiasse più di tanto. Resta il fatto che l’idea di fondo, quella di un cuoco inseguito da uova all’occhio di bue e salamelle fameliche lungo un tortuoso labirinto di vassoi, era geniale. Geniale al punto tale che una storia del genere potevi aspettartela pure cantata da uno come Paul Roland. Che a Burgertime probabilmente non ha mai giocato, ma che di cose del genere ne ha viste a strafottere. Lo scopo del gioco era quello di preparare dei panini giganti, impilando le fettone di mozzarella e le foglie di lattuga semplicemente camminandoci sopra, così da sbatterle giù una sopra l’altra. Il povero Peter Pepper, insomma, era protagonista di un vero e proprio incubo ad occhi aperti, uno di quelli che vengono a farti le boccacce di notte quando ti sei andato ad incastrare in un lavoro alienante, spossante e ben poco stimolante. Un lavoro normale, insomma. Uno di quelli che in tempi più civili, di tanto in tanto, ti veniva pure in mente di provare a fare. Anche solo per gioco.

I SETTE PECCATI CAPITALI


Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia e Accidia: niente male come elenco di nefandezze. Fino a qualche tempo fa sarei stato pronto a scommettere su di un parziale di “zero su sette”, per quanto riguarda il sottoscritto. Il che implicava ovviamente un “uno su sette”, perché la Superbia ti colpisce a tradimento. E visto che un “uno su sette” vale l’altro, ho deciso di sostituire la Superbia con la Gola, che mi pare una scelta più intelligente.

Accidia
Jacopone da Todi ne descriveva così gli effetti:

“L'Accidia una freddura, / ce reca senza mesura, / posta 'n estrema paura, / co la mente alienata”

(in Laudi Trattato e Detti, a cura di Franca Ageno, Firenze, Le Monnier, 1953).

Dante, che nel Convivio sembra considerarla un "vizio per difetto dell'ira", nel VII canto della Commedia pone gli accidiosi nella palude Stigia, insieme con gli iracondi, mentre nel Purgatorio li colloca nel IV girone (Canto XVII). Nel lessico contemporaneo il termine accidia / accidioso è usato come sinonimo di noia e vita depressa. Inoltre indica lo scoraggiamento, l'abbattimento e la stanchezza. Come tale rinvia, più che a questioni etiche, a questioni psicologiche ed è correntemente considerato, piuttosto che un peccato, un sintomo di depressione.
Banalizzato, “accidioso” indica anche semplicemente una personalità particolarmente incline all'ozio, che è considerato un peccato capitale anche dalla moderna società desacralizzata (in quanto il soggetto che ne è colpito produce e consuma meno di quanto "dovrebbe"). Come tale, l’accidioso si configura come un individuo socialmente pericoloso, in quanto attore ed esempio di disordine.
Ogni riferimento a persone, anime e scarabocchi di vita di mia conoscenza è assolutamente voluto. Non per cattiveria, ma per troppo amore.

LA NOTTE DEL TERRORE


Fino alla sera prima, come da tradizione, non si sapeva dove saremmo finiti. Si era pronti per una risalita alpina, che a due su tre (o forse “a tre su tre”) sarebbe servita per riprendere fiato e divorare ossigeno, che dio mio se ci manca, dio mio se ci manca. Naturalmente, in qualità di guida alpina e di esperto di montagna, sarebbe toccato ad Andrea e scegliere una meta idonea alle imbarazzanti qualità atletiche del gruppo, e guidare poi il gruppo di cui sopra fino alla meta di cui si è accennato. Con l’ovvia postilla del rientro al campo base, ovvio. E già che si doveva partire da un “campo” per poi ritornarci, allora tanto valeva scegliere una destinazione che evocasse fin da subito il punto di partenza, ovvero l’Alpe Campo. A guardarlo da internet pareva un cucuzzolo di montagna come tanti altri. Ad appoggiarci lo sguardo per davvero, invece, anche. In compenso sarebbe stata “nuova”, “fresca” ed “eccitante” l’esperienza alpina di un gruppo di disperati, due dei quali infilati a dormire in un sacco a pelo per la prima volta nella loro vita.
Ovviamente un resoconto dettagliato al minuto di quanto accaduto nei due giorni di escursione, pur essendo nelle mie corde, potrebbe risultare un goccio pedante. Ecco allora uno zoom (dal prossimo appuntamento arricchito da un compendio fotografico) sui momenti topici di quello che è stato l’ennesimo tentativo di riprendere fiato, fiducia ed energia dopo la fine della storia con Tania. Evento che, vista la situazione psicologica del nostro, avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. Ma si dice che il Magiustra venga da una razza resistente, e mai voce, sussurro, bisbiglio fu più veritiero. Almeno stando a quel che si racconta tra gli abitanti di Flatlandia e del Regno dei Funghi, ovviamente.

INFILATI IN UN SACCO A PELO
Che si legga giusto, con la corretta intonazione, così che si capisca che è un generico “oh noi!, che eravamo infilati in un sacco a pelo” e non un dittatoriale “tu: infilati in un sacco a pelo!”.
Si diceva, quindi, della prima notte passata rifugiati in un sacco a pelo. Ma prima ancora è forse meglio concentrare l’attenzione non tanto sull’alpeggio, quanto sulla baita che ci avrebbe fatto da tana. Baita, sì, ma appena appena. L’Alpe Campo non sembra passarsela tanto bene, abbandonato a se stesso com’è, e la baita dentro alla quale ci eravamo infilati ne era una sorta di manifesto. La cassetta di sicurezza faceva da tana per due serpenti velenosi, il tavolaccio di legno aveva solo tre gambe (una delle quali di dubbia origine animale) e le coperte erano una sorta di coltura di zecche della peggio specie. A condire il tutto, e non poteva essere altrimenti, sette anime in pena sono arrivate qualche ora dopo di noi nello stesso medesimo luogo, su di un dannato alpeggio a 2000 metri dimenticato da dio e dall’uomo, in cerca di un buon posto per passare la notte attorno ad un falò, bruciando carne di bestie più o meno sacre per placare l’ira del loro dio pagano che, con ogni probabilità, sono stati ammaestrati a venerare in tempi decisamente sospetti (ovvero negli anni del Catechismo o giù da quelle parti). Se mi conoscete saprete che non amo la compagnia. Se non mi conoscete, lo imparerete ben presto. Dei Sette dell’Ave Maria, come ovvio, non vale nemmeno la pena parlare. Se erano vivi, lo erano di un soffio. Se erano morti, era quasi impossibile rendersene conto perché rompevano le palle come da vivi.
Ma torniamo ora nel sacco a pelo, dentro al quale ho cercato rifugio per isolarmi dalla montagna che incazzata come non mai sbuffava e fumo e nebbia e nuvole. Ma non era solo un rifugio quello che avevo trovato tra le pieghe del tessuto sintetico, ovviamente. La tana nel sacco a pelo teneva infatti lontani pure i due serpenti di cui sopra, le zecche, il freddo e (un po’) il chiacchiericcio dei Templari che si erano impossessati di due delle tre stanze che, come tessere di un puzzle, completavano un ambiente piccolo, sporco e abbandonato. Un posto amorevole, quindi, al cospetto di un qualsiasi locale cittadino, tanto per dirne una. Dentro al sacco a pelo, insomma, ci si sentiva bene. E mi ci sento bene pure ora, che scrivo queste righe con il sacco a pelo avvolto attorno al corpo come il mantello di un re balordo e stanco. Ma non divaghiamo, che si diceva di quanto ce la si passa bene nel sacco a pelo. E perché mai non dovrebbe essere così? Ci sono veramente tutti i presupposti per una dormita dal vago sapor uterino: è caldo, è morbido, è sicuro. L’ultimo aggettivo si può ampiamente trascurare nel caso di sigarette notturne più o meno arzigogolate, ma questo è un discorso che vale anche per i nove mesi passati a rotolare dentro una pancia, e quindi tutto torna. Resta il fatto che dentro al sacco a pelo ci sono solo io. E che da solo sono sempre stato bene. Eppure da qualche cerniera un po’ abbassata, un po’ allentata, un po’ molle deve essere riuscito a penetrare un alito di Tania, che è l’ultimo pensiero prima di una notte buia, fredda e profonda. Una notte colorata dall’irregolare russare del Conte, dalla fioca luce della lampadina frontale di Andrea (sprofondato nella pagina di politica estera del Manifesto della mattina precedente), da qualche grammo di erba speciale e, ovvio, da una goccia di Grappa al Genepy. Una sorta di veleno aromatizzato, detto tra noi. Ma al Conte e ad Andrea questo dettaglio deve essere sfuggito.

QUESTO PRANZO MI PIACE AL SACCO
Il pasto, che dopo la fuga di Tania è passato da “Gioioso Valzer Austriaco” a “Mefistofelico Problema Pratico”, è forse il campo dello scibile umano sul quale sono al lavoro con più attenzione. L’idea di fondo è quella di fare il meglio che posso per nutrirmi, naturalmente in base a quanto ho imparato stando con Tania. La decisione di allentare la guardia per quanto riguarda il miele e i latticini è dovuta ad uno splendido matrimonio tra questioni pratiche e semplice gola, che Tommaso d’Aquino (nel XIII secolo) ha definito uno dei Sette Peccati Capitali, e così sia. Resta il fatto che durante il cammino, che definire faticoso per le arrugginite membra di un trentenne disperato è forse poco, mi sono tornati utili i bonus energetici di una tavoletta di cioccolato e di una bustina di miele. Come già per la prima escursione, il piatto forte del pranzo è stato l’ormai celebre Panino alla Magiustra, assemblato in perfetto stile Burgertime nel corso della notte precedente la partenza. Nemmeno a dirlo, appena mi deciderò ad acquistare una macchina fotografica digitale si potrà ammirare questa sorta di monumento eretto in onore della salute in tutto il suo splendore, con gli spinaci pronti a dar manforte alle carote o ai pomodori e le fettine di mozzarella tagliate “sottili ma non troppo”, con il loro carico appena accennato di olio & sale. Questi ingredienti, sapientemente combinati, fanno del Panino alla Magiustra un pasto comodo e ghiotto per le trasferte alpine. A fare da dolce, dopo il panino, ci pensa la frutta. Mi sforzo per mangiarne un po’ ogni giorno, e questa volta è stato il turno delle banane. Un frutto scemo, ma simpatico e con quel giusto “tocco primitivo” che mi solletica l’umore e mi lascia sghignazzante e zuccherino. Resta il fatto che di soli panini non si può vivere, ed ecco allora che alla sera ci siamo messi di buzzo buono per improvvisare una cena d’altri tempi. O quasi. La portata principale, cucinata sul fornellino da campo di Andrea, è stata una minestra d’orzo in bustina. A nutrirsene in cascina ci sarebbe stato da immalinconirsi fino alle lacrime, ma in alta montagna, seduti attorno ad un tavolaccio semovente, la zuppa ha assunto tutto un altro sapore. Un sapore più caldo e forte, che ci ha portato a pulire i piatti con quel po’ di pane che avevamo portato su (e che avremmo dovuto tenere da parte anche per il pranzo del giorno dopo). Si era proprio alle ultime cucchiaiate quando siamo stati interrotti da uno scalpiccio, da un sordo rumore di passi, da un ansimare al tempo stesso irregolare e metodico. Io, più saggio di Davide e Andrea, avevo già intuito l’arrivo dell’Uomo Capra, noto spauracchio dei bambini della Val Vigezzo più acculturati (i pochi che sanno leggere, e che hanno buttato via un po’ di tempo sulle pagine de “Il Piano delle Streghe” di Benito Mazzi). Con mia grande delusione, invece del testone irsuto dell’Uomo Capra, è comparsa sulla porta l’incerta silhouette di un classico esponente della sinistra più pacata, ambasciatore del gruppo di acrobati circensi di cui si è accennato prima. A vederli entrare dalla porta, uno per uno, era impossibile non pensare alla visita di Gandalf e dei suoi alla dimora di Beorn. Osservando attentamente queste figure stropicciate, ecco che era possibile accorgersi che due di queste vantavano degli improbabili tratti fisici femminili, ovviamente umiliati da una bassezza spirituale intuibile dallo sguardo vacuo e tremebondo. Dopo una visione tale, e dopo aver accettato la compagnia di sette compari per la notte, non è stato facile recuperare l’appetito. Una Toma acquistata da Andrea per l’occasione ha però salvato la situazione facendo tornare il sorriso anche al buon Magiustra (che prima smetterà di scrivere in terza persona, e meglio sarà), ai suoi primi passi nel golosissimo mondo dei formaggi. La cena è stata innaffiata con della freschissima (e torbida) acqua di fiume, che di fonti in giro non se ne vedevano proprio. La prossima volta che ci metteremo in cammino sarà meglio ricordarsi di comprare quelle orribili pastiglie in grado, per un misterioso segreto alchemico, di depurare l’acqua. L’unica bevanda a prova di batteri, in questi due giorni passati tra la noia, il disagio e la stanchezza, è stata la classica tazza di the, con l’acqua portata ad ebollizione e i germi impegnati a bruciare tra le fiamme dell’inferno. Inferno che poi era giusto il fuoco di un fornellino da campo. Ma come ben sanno i più saggi di noi, tutto è relativo. E proprio per questo la zuppa d’orzo, il Panino alla Magiustra, la Toma di Andrea e il the del mattino non mi sono mai sembrati tanto buoni, tanto allegri, tanto confortanti.