LA NOTTE DEL TERRORE
Fino alla sera prima, come da tradizione, non si sapeva dove saremmo finiti. Si era pronti per una risalita alpina, che a due su tre (o forse “a tre su tre”) sarebbe servita per riprendere fiato e divorare ossigeno, che dio mio se ci manca, dio mio se ci manca. Naturalmente, in qualità di guida alpina e di esperto di montagna, sarebbe toccato ad Andrea e scegliere una meta idonea alle imbarazzanti qualità atletiche del gruppo, e guidare poi il gruppo di cui sopra fino alla meta di cui si è accennato. Con l’ovvia postilla del rientro al campo base, ovvio. E già che si doveva partire da un “campo” per poi ritornarci, allora tanto valeva scegliere una destinazione che evocasse fin da subito il punto di partenza, ovvero l’Alpe Campo. A guardarlo da internet pareva un cucuzzolo di montagna come tanti altri. Ad appoggiarci lo sguardo per davvero, invece, anche. In compenso sarebbe stata “nuova”, “fresca” ed “eccitante” l’esperienza alpina di un gruppo di disperati, due dei quali infilati a dormire in un sacco a pelo per la prima volta nella loro vita.
Ovviamente un resoconto dettagliato al minuto di quanto accaduto nei due giorni di escursione, pur essendo nelle mie corde, potrebbe risultare un goccio pedante. Ecco allora uno zoom (dal prossimo appuntamento arricchito da un compendio fotografico) sui momenti topici di quello che è stato l’ennesimo tentativo di riprendere fiato, fiducia ed energia dopo la fine della storia con Tania. Evento che, vista la situazione psicologica del nostro, avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. Ma si dice che il Magiustra venga da una razza resistente, e mai voce, sussurro, bisbiglio fu più veritiero. Almeno stando a quel che si racconta tra gli abitanti di Flatlandia e del Regno dei Funghi, ovviamente.
INFILATI IN UN SACCO A PELO
Che si legga giusto, con la corretta intonazione, così che si capisca che è un generico “oh noi!, che eravamo infilati in un sacco a pelo” e non un dittatoriale “tu: infilati in un sacco a pelo!”.
Si diceva, quindi, della prima notte passata rifugiati in un sacco a pelo. Ma prima ancora è forse meglio concentrare l’attenzione non tanto sull’alpeggio, quanto sulla baita che ci avrebbe fatto da tana. Baita, sì, ma appena appena. L’Alpe Campo non sembra passarsela tanto bene, abbandonato a se stesso com’è, e la baita dentro alla quale ci eravamo infilati ne era una sorta di manifesto. La cassetta di sicurezza faceva da tana per due serpenti velenosi, il tavolaccio di legno aveva solo tre gambe (una delle quali di dubbia origine animale) e le coperte erano una sorta di coltura di zecche della peggio specie. A condire il tutto, e non poteva essere altrimenti, sette anime in pena sono arrivate qualche ora dopo di noi nello stesso medesimo luogo, su di un dannato alpeggio a 2000 metri dimenticato da dio e dall’uomo, in cerca di un buon posto per passare la notte attorno ad un falò, bruciando carne di bestie più o meno sacre per placare l’ira del loro dio pagano che, con ogni probabilità, sono stati ammaestrati a venerare in tempi decisamente sospetti (ovvero negli anni del Catechismo o giù da quelle parti). Se mi conoscete saprete che non amo la compagnia. Se non mi conoscete, lo imparerete ben presto. Dei Sette dell’Ave Maria, come ovvio, non vale nemmeno la pena parlare. Se erano vivi, lo erano di un soffio. Se erano morti, era quasi impossibile rendersene conto perché rompevano le palle come da vivi.
Ma torniamo ora nel sacco a pelo, dentro al quale ho cercato rifugio per isolarmi dalla montagna che incazzata come non mai sbuffava e fumo e nebbia e nuvole. Ma non era solo un rifugio quello che avevo trovato tra le pieghe del tessuto sintetico, ovviamente. La tana nel sacco a pelo teneva infatti lontani pure i due serpenti di cui sopra, le zecche, il freddo e (un po’) il chiacchiericcio dei Templari che si erano impossessati di due delle tre stanze che, come tessere di un puzzle, completavano un ambiente piccolo, sporco e abbandonato. Un posto amorevole, quindi, al cospetto di un qualsiasi locale cittadino, tanto per dirne una. Dentro al sacco a pelo, insomma, ci si sentiva bene. E mi ci sento bene pure ora, che scrivo queste righe con il sacco a pelo avvolto attorno al corpo come il mantello di un re balordo e stanco. Ma non divaghiamo, che si diceva di quanto ce la si passa bene nel sacco a pelo. E perché mai non dovrebbe essere così? Ci sono veramente tutti i presupposti per una dormita dal vago sapor uterino: è caldo, è morbido, è sicuro. L’ultimo aggettivo si può ampiamente trascurare nel caso di sigarette notturne più o meno arzigogolate, ma questo è un discorso che vale anche per i nove mesi passati a rotolare dentro una pancia, e quindi tutto torna. Resta il fatto che dentro al sacco a pelo ci sono solo io. E che da solo sono sempre stato bene. Eppure da qualche cerniera un po’ abbassata, un po’ allentata, un po’ molle deve essere riuscito a penetrare un alito di Tania, che è l’ultimo pensiero prima di una notte buia, fredda e profonda. Una notte colorata dall’irregolare russare del Conte, dalla fioca luce della lampadina frontale di Andrea (sprofondato nella pagina di politica estera del Manifesto della mattina precedente), da qualche grammo di erba speciale e, ovvio, da una goccia di Grappa al Genepy. Una sorta di veleno aromatizzato, detto tra noi. Ma al Conte e ad Andrea questo dettaglio deve essere sfuggito.
QUESTO PRANZO MI PIACE AL SACCO
Il pasto, che dopo la fuga di Tania è passato da “Gioioso Valzer Austriaco” a “Mefistofelico Problema Pratico”, è forse il campo dello scibile umano sul quale sono al lavoro con più attenzione. L’idea di fondo è quella di fare il meglio che posso per nutrirmi, naturalmente in base a quanto ho imparato stando con Tania. La decisione di allentare la guardia per quanto riguarda il miele e i latticini è dovuta ad uno splendido matrimonio tra questioni pratiche e semplice gola, che Tommaso d’Aquino (nel XIII secolo) ha definito uno dei Sette Peccati Capitali, e così sia. Resta il fatto che durante il cammino, che definire faticoso per le arrugginite membra di un trentenne disperato è forse poco, mi sono tornati utili i bonus energetici di una tavoletta di cioccolato e di una bustina di miele. Come già per la prima escursione, il piatto forte del pranzo è stato l’ormai celebre Panino alla Magiustra, assemblato in perfetto stile Burgertime nel corso della notte precedente la partenza. Nemmeno a dirlo, appena mi deciderò ad acquistare una macchina fotografica digitale si potrà ammirare questa sorta di monumento eretto in onore della salute in tutto il suo splendore, con gli spinaci pronti a dar manforte alle carote o ai pomodori e le fettine di mozzarella tagliate “sottili ma non troppo”, con il loro carico appena accennato di olio & sale. Questi ingredienti, sapientemente combinati, fanno del Panino alla Magiustra un pasto comodo e ghiotto per le trasferte alpine. A fare da dolce, dopo il panino, ci pensa la frutta. Mi sforzo per mangiarne un po’ ogni giorno, e questa volta è stato il turno delle banane. Un frutto scemo, ma simpatico e con quel giusto “tocco primitivo” che mi solletica l’umore e mi lascia sghignazzante e zuccherino. Resta il fatto che di soli panini non si può vivere, ed ecco allora che alla sera ci siamo messi di buzzo buono per improvvisare una cena d’altri tempi. O quasi. La portata principale, cucinata sul fornellino da campo di Andrea, è stata una minestra d’orzo in bustina. A nutrirsene in cascina ci sarebbe stato da immalinconirsi fino alle lacrime, ma in alta montagna, seduti attorno ad un tavolaccio semovente, la zuppa ha assunto tutto un altro sapore. Un sapore più caldo e forte, che ci ha portato a pulire i piatti con quel po’ di pane che avevamo portato su (e che avremmo dovuto tenere da parte anche per il pranzo del giorno dopo). Si era proprio alle ultime cucchiaiate quando siamo stati interrotti da uno scalpiccio, da un sordo rumore di passi, da un ansimare al tempo stesso irregolare e metodico. Io, più saggio di Davide e Andrea, avevo già intuito l’arrivo dell’Uomo Capra, noto spauracchio dei bambini della Val Vigezzo più acculturati (i pochi che sanno leggere, e che hanno buttato via un po’ di tempo sulle pagine de “Il Piano delle Streghe” di Benito Mazzi). Con mia grande delusione, invece del testone irsuto dell’Uomo Capra, è comparsa sulla porta l’incerta silhouette di un classico esponente della sinistra più pacata, ambasciatore del gruppo di acrobati circensi di cui si è accennato prima. A vederli entrare dalla porta, uno per uno, era impossibile non pensare alla visita di Gandalf e dei suoi alla dimora di Beorn. Osservando attentamente queste figure stropicciate, ecco che era possibile accorgersi che due di queste vantavano degli improbabili tratti fisici femminili, ovviamente umiliati da una bassezza spirituale intuibile dallo sguardo vacuo e tremebondo. Dopo una visione tale, e dopo aver accettato la compagnia di sette compari per la notte, non è stato facile recuperare l’appetito. Una Toma acquistata da Andrea per l’occasione ha però salvato la situazione facendo tornare il sorriso anche al buon Magiustra (che prima smetterà di scrivere in terza persona, e meglio sarà), ai suoi primi passi nel golosissimo mondo dei formaggi. La cena è stata innaffiata con della freschissima (e torbida) acqua di fiume, che di fonti in giro non se ne vedevano proprio. La prossima volta che ci metteremo in cammino sarà meglio ricordarsi di comprare quelle orribili pastiglie in grado, per un misterioso segreto alchemico, di depurare l’acqua. L’unica bevanda a prova di batteri, in questi due giorni passati tra la noia, il disagio e la stanchezza, è stata la classica tazza di the, con l’acqua portata ad ebollizione e i germi impegnati a bruciare tra le fiamme dell’inferno. Inferno che poi era giusto il fuoco di un fornellino da campo. Ma come ben sanno i più saggi di noi, tutto è relativo. E proprio per questo la zuppa d’orzo, il Panino alla Magiustra, la Toma di Andrea e il the del mattino non mi sono mai sembrati tanto buoni, tanto allegri, tanto confortanti.
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