PHIL SPECTOR
Se c’è una cosa che non sopporto del tizio che abitualmente imbratta le pagine di questo libercolo elettronico, non ci sono dubbi, questa è la sua straordinaria capacità di non capirci mai un cazzo. Premiamo un tasto a caso, tipo quello musicale, e stiamo a vedere.
Da circa un mese, pur avendo la casa strabordante di album, raccolte, LP, concept, singoli a tiratura limitata e mille altre porcate in odor di pentagramma, ecco che il nostro passa il tempo a ballare e a canticchiare alcune delle più agghiaccianti canzoncine pop della storia della musica. Vederlo sculettare e strillare in falsetto “oooooh baby!” ogni due per tre, nel tentativo di accompagnare le Supremes (nemmeno ne avessero bisogno), è uno spettacolo disgustoso. E non parliamo poi delle gite nel fantastico mondo delle Ronettes, di cui il losco figuro di cui sopra vi ha già raccontato (a modo suo) qualche giorno fa. E via di complimenti, e via di applausi, e via di ampi cenni d’assenso. Ma che si fottano, le Ronettes. Se non fosse stato per l’orco cattivo, se non fosse stato per Phil Spector, ‘ste tre ragazzine sarebbero rimaste dalle parti di New York a servire ai tavoli, che tanto quello era il loro mestiere. E se qualcuno si prendesse la briga di stare attento a come è andata a finire la storia, ecco che non potrebbe far altro che darmi ragione. Phil Spector, invece, ai tavoli non avrebbe mai potuto servire. Anzi, probabilmente della sua vita non avrebbe mai potuto fare niente altro che quello che ha fatto, ovvero sprecarla, umiliarla, irriderla. Ma del resto basta dare un’occhiata ai suoi primi anni di vita per rendersi conto che il destino non l’avesse sistemato proprio sui binari giusti.
Phil Spector è nato nel 1940, il 26 dicembre, da una coppia in odor di incesto. Il padre e la madre, infatti, vuole la leggenda che fossero primi cugini, e tanto per scombussolare ancor di più la vita di un ragazzino bianco, ebreo e costretto a crescere nel Bronx, ecco che il padre si suicida quando il nostro ha soli nove anni. Ecco, così si inizia una bella storia di quelle che piacciono a noi, quelle dove il futuro di un’animuccia pare già scritto, imbustato e spedito verso un finale a dir poco misero. Ovvio che Spector, che nella miseria ci era nato, per ritornarci ha pensato bene di fare il giro lungo. Giusto il tempo di preparare la valigia ed eccolo partire verso Los Angeles, California.
Nella città degli Angeli, uno incazzato e malato come lui avrebbe solo e soltanto potuto fare fortuna. E infatti basta poco per vederlo spuntare fuori dal nulla con un singolo tutto pop & lustrini, registrato con un gruppo di “amici” chiamati Teddy Bears. La canzone è “To Know Him Is To Love Him” e il titolo, con gran gusto per la perversione, è l’epitaffio inciso sulla lapide mortuaria del padre. Ovvio che per arrivare al primo posto della classifica di Billboard con un’idea del genere si debba essere dei fenomeni. Resta il fatto che il singolo vende qualcosa come cinque milioni di copie e che il giovane Phil, pur attraverso le solite e scurissime lenti dei suoi occhiali da Sole, riesce ad intravedere un sentiero pavimentato di contanti, sesso, fama e tanta droga.
A ventuno anni Spector è miliardario: quello che tocca si trasforma in oro massiccio. Pure gli innocenti singoli delle Ronettes, tanto per tornare all’argomento principale. Ma come ben sanno i più saggi di noi, perdere tutto è questione di un attimo. E infatti, dalla seconda metà degli anni ‘60 in poi, per Spector inizia il viaggio di ritorno verso casa. Che è come dire verso l’inferno, ovviamente. Lungo la strada incontra un sacco di altre anime dannate quasi quanto la sua, anime come quelle di John Lennon, dei Ramones, di Leonard Cohen (al quale puntò una pistola alla tempia, tanto per dirne una, durante la registrazione di “Death of a Ladies’ Man” del 1977). Già che c’era, e già che aveva un attimo, si prese pure la briga di produrre l’ultimo (per modo di dire, sapete come è andata la storia) album dei Beatles, facendo incazzare uno solitamente ben poco permaloso come McCartney. La sua “The Long and Winding Road” viene sommersa da Spector con una colata di archi e di arrangiamenti a dir poco pomposi. Il Baronetto di Liverpool, piuttosto che prendersela con Phil (che doveva avere una luce strana negli occhi), decide di dare la colpa a Lennon, chiudendo così la storia dei Beatles.
Dopo anni di paranoia spirituale, e dopo una sorta di segregazione volontaria nella propria reggia (una villa chiamata Pyrenees Castle, in California), a Phil Spector non resta altro da fare che organizzare un gran finale. Negli appartamenti della sua lussuosa abitazione uccide con un colpo d’arma da fuoco una (non più) giovane attrice, Lara Clarkson. Il 3 febbraio del 2003 viene così arrestato, gettando una scura luce sul contenuto di un’intervista rilasciata solo quattro settimane prima al Daily Telegraph. Spector aveva affermato di sentirsi poco bene, aggettivandosi come “relatively insane”. Già, “relativamente”, almeno rispetto a tutti gli altri che aveva incrociato per strada.
Ecco, questa è una storia che vale la pena raccontare. Altro che quella delle Ronettes e delle loro canzoncine pop da due minuti. Una canzone come “Be My Baby” non bisognerebbe ascoltarla, figuriamoci ballarla o canticchiarla. Bisognerebbe solo sapere che chi l’ha scritta è finalmente sulla porta dell’inferno, sulla porta di casa sua, pronto per tornare da dove è venuto.
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