sabato, settembre 23, 2006

BILLIE HOLIDAY, LADY DAY


Se nel corso della vita ti capita di finire dritto dritto tra le braccia di una donna come Billie Holiday, ecco allora che puoi veramente considerarti fortunato. Che poi “tra le braccia” vuol dire pure finirci a letto ed esserne travolto una volta per tutte, almeno se (come da pronostico) il modo in cui canta una delle più disperate voci del jazz è anche solo parzialmente accostabile al modo in cui Billie si sbatteva i suoi ometti.
Eleonora Fagan, la nostra Billie Holiday, nacque il 17 aprile del 1915 in una squallida tana alla periferia di Philadelphia. Per capire quanto sarebbe stata divertente la sua vita le ci vollero probabilmente pochi istanti, giusto il tempo di rendersi conto di quanto disgraziata fosse sua madre, una modesta donna di servizio alle dipendenze della famiglie più bianche e più aristocratiche di Baltimora. Quando nacque la piccola Eleonora, sua madre aveva appena tredici anni. Del papà ufficiale, un musicista jazz, meno se ne parla e meglio è, visto che abbandonò ben presto il resto della famiglia al suo infame destino. E che “infame destino”, verrebbe da aggiungere. Eleonora si guadagnò il soprannome di “Lady” perché rifiutava di accettare le mance nel locale di Harlem dove cantava abitualmente, almeno da adolescente. Non è che le facessero schifo i soldi, è che non le piaceva l’idea di alzarsi la gonna e di farsi infilare le banconote tra le cosce, come era abitudine ad Harlem e dintorni in quei tempi barbari e oscuri. Prima ancora di ritrovarsi a cantare quasi per caso, Eleonora aveva già assaggiato la nauseabonda zuppa della vita guadagnandosi da vivere strofinando gli scalini delle abitazioni dei bianchi. A dieci anni era povera, sporca e abbandonata a se stessa. Di solito quando ti ritrovi in una situazione simile capita che qualcuno ti sussurri un “peggio di così non può andare”. Sbagliato, ovviamente: a dieci anni Eleonora viene violentata da un omaccione che già si scopava la madre, finendo poi direttamente in un riformatorio perché considerata ormai “corrotta”. Roba che a scriverla ci sarebbe da non crederci.
Quando la nostra piccola eroina venne buttata di nuovo in mezzo a una strada, ecco che non le si presentò altra possibilità se non quella di prostituirsi per pochi denari, con i quali affittare una stanza all’interno di un bordello. Una tipa tutta “casa e lavoro”, a vederla da fuori. Poi, finalmente, le capitò l’occasione di mettersi dietro a un microfono, per una serie di coincidenze piuttosto incredibili. E io me li immagino i volti sconvolti delle persone che la sentirono cantare la prima volta. Non per altro, ma Billie Holiday, quando cantava, cantava con una voce che sapeva, odorava, puzzava del suo schifo di vita. E come ciliegina sulla torta, tanto per renderla ancora più malsana e nauseabonda, subito dopo i primi timidi successi ecco arrivare anche la dipendenza dall’eroina.
A raccontarla così potrebbe sembrare che Cobain, al confronto, fosse uno baciato dalla fortuna. Ma da queste parti ci si attiene ai fatti: non una riga di quelle sopra scribacchiate è stata inventata e, ovvio, nessuna verità è stata colorata per amore della prosa creativa. Ma proprio per niente. Anche perché quando ascolti una delle ballate di Billie Holiday (proprio ora sullo stereo gira “What A Little Moonlight Can Do”), ti viene voglia di essere onesto e sincero una volta per tutte. Se lo era lei, che avrebbe avuto una mezza infinità di buoni motivi per sputare addosso al mondo e a tutte le anime tristi che lo popolano, come potresti mai permetterti di non esserlo pure tu? Tu che sei già fortunato ad avere modo di sentirla cantare la sua più buia disperazione, la sua più struggente tenerezza, le sue più malinconiche fantasie. L’unica cosa che puoi permetterti è di considerarti fortunato, anche se un goccio d’invidia per l’uomo di cui canta Billie in “My Man” è proprio impossibile non provarla. A quale uomo, fra i mille e più che finirono per usarla, umiliarla e ucciderla era mai stata dedicata? Quello sì che doveva veramente essere un uomo fortunato! Un uomo amato da una donna ubriaca di dolore e di vita. Un uomo amato da una donna che a letto, prima di prendere sonno, probabilmente gli sussurrava in un orecchio, con una voce gracile e profonda, “Me, myself and I are all in love with you, we all think you're wonderful, we do”.